
Fu pubblicato nel 1851, in un’epoca di fervore della letteratura americana. In quegli stessi anni infatti videro la luce La lettera scarlatta di Hawthorne (1850), Walden di Thoreau (1854) e Foglie d’erba di Whitman (1855). E iniziava a coltivare la sua vocazione di poetessa Emily Dickinson, la grande solitaria. Quando Cesare Pavese tradusse per la prima volta in Italia il capolavoro di Melville mise subito in guardia i lettori sulla posta in palio:
“Si legga quest’opera tenendo a mente la Bibbia e si vedrà come quello che potrebbe anche parere un curioso romanzo d’avventure, un poco lungo a dire il vero e un poco oscuro, si svelerà invece per un vero e proprio poema sacro cui non sono mancati né il cielo né la terra a por mano. Dal primo estratto di citazione «E Dio creò grandi balene» fino all’epilogo, di Giobbe: «E io solo sono scampato a raccontarvela» è tutta un’atmosfera di solennità e severità da Vecchio Testamento, di orgogli umani che si rintuzzano dinnanzi a Dio, di terrori naturali che sono la diretta manifestazione di Lui”.
In una splendida biografia di Melville, Paolo Parisi Presicce ha compendiato i modelli d’ispirazione del romanzo: Il Libro di Giobbe fa da modello o stampo per la sfida interrogatoria al divino. Il Libro di Giona, attraverso il personaggio di Ishmael, per l’obbedienza cieca all’universo; il King Lear di Shakespeare per il crollo tragico e inevitabile dell’autorità; il Paradise Lost di Milton per l’ambizione incrollabile; il Doctor Faustus di Marlowe per la tentazione demoniaca; il Faust di Goethe per l’ossessione eroica, l’Anatomy of Melancholy di Burton, letto più volte, per una psicologia nostalgica e invalidante.