A questa scrittura pittografica, “scrittura di cose”, che rispecchiava immediatamente una sorta di “visione bruta” del mondo, e come tale era pressoché indipendente dal linguaggio parlato, i Mesopotamici erano così legati che non l’abbandonarono del tutto neppure dopo che ebbero inventato la scrittura sillabica, enormemente più economica. Accanto a segni presi nel loro valore fonetico, cioè sillabico, gli utenti della scrittura cuneiforme si sono ostinati a mantenere l’impiego di quegli stessi segni nel loro antico valore di pittogrammi, e quest’uso primitivo e obsoleto, praticamente inviscerato nella scrittura, è durato circa tre millenni.
Lo stesso segno, cioè, poteva in ogni momento esser inteso, secondo la volontà di chi scriveva, come rappresentasse una cosa o una sillaba: quello del “chicco di cereale (orzo)” per indicare o l’orzo o la sillaba še (il suo nome in sumero); quello del “piede” per “andare” o “stare in piedi/immobile” o “portar via”, oppure per i fonemi du, gub, tum (i quali rispondevano a tali concetti in lingua sumerica). In pratica, la scrittura pittografica tesse fra le cose una quantità di rapporti più o meno imprevedibili o sottili: abitua lo spirito a vedere e a percepire quei legami segreti esistenti fra loro.
La scrittura cuneiforme fu inventata nella bassa Mesopotamia verso il 2850 a.C., e fu necessario mezzo secolo prima che si perfezionasse il primitivo ammasso di segni mnemotecnici, per diventare un vero sistema grafico che esprimesse la lingua parlata. Per molti anni sarà utilizzato soprattutto per la contabilità e l’amministrazione, poi esteso al settore delle iscrizioni votive e commemorative e, verso il 2600, alla “letteratura” vera e propria. In principio era riservato alla lingua sumerica, poi venne adottato dall’accadica, che lo porta avanti nell’ultimo quarto del III millennio.
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La civiltà delle lettere è il portato accidentale delle notazioni contabili dei Sumeri. Queste sono cose che ti segnano.
Irrimediabilmente, infatti.