Secondo gli antichi Babilonesi, la disposizione delle stelle è la “scrittura del cielo”. Come il re è il giudice e il padrone del destino dei suoi sudditi, così – a un livello infinitamente superiore – gli dèi Mesopotamici decidono il destino degli uomini e degli imperi. E così come il re rende nota la sua volontà attraverso ordini scritti su tavolette d’argilla (da qui la sua abbondante corrispondenza), gli dèi scrivono i destini che hanno fissato per gli uomini. Ma l’unica tavoletta che possono usare è l’universo intero, che costituisce un’immensa pagina di scrittura.
Gli dèi prendevano le loro decisioni in un raduno annuale nella «Sala-dei-Destini»: dopo aver determinato di comune accordo la sorte degli uomini – di ogni uomo, naturalmente – per l’anno successivo, facevano scrivere i risultati della loro pianificazione sulla «Tavoletta dei Destini», uno degli emblemi-talismani del Potere supremo.
Per questo la scienza divinatoria mesopotamica, che cerca di decifrare il volere degli dèi, è un’arte lentamente lavorata. Tutto, sulla terra, è ominoso. E la concezione che hanno i Mesopotamici dell’azione divina determina quell’immensa curiosità universale, quella sorta d’invincibile volontà di deciframento del cosmo, che è caratteristica del loro spirito: decodificare la Verità del messaggio divino iscritto nell’Universo, che diventa così un’enorme collezione di presagi.
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