Una nuova e implicita prescrizione morale scorre al fondo della nostra società: afferma il tuo carattere personale, non omologarti, cerca la diversità che ti consenta di non confonderti. Dal momento che non c’è peggior condanna che quella di non essere più riconosciuti, ci arrabattiamo per dare consistenza al nostro io, ma tutto questo diventa sempre più arduo, perché l’individuo è ora in balia di una società che mette a disposizione una libertà mai sperimentata prima, una libertà che deriva da un’offerta concorrenziale di modi di vita pronti per l’uso, capaci di garantire varianti sempre nuove, stimoli inesplorati, promesse di avventura. Ecco allora che l’identità diventa un vero e proprio lavoro, una forma di azione e non più una situazione; e se nel passato la rappresentazione del sé poteva essere considerata un dato culturale, un’eredità sociale o un elemento di riflessione, ora appare sempre più simile a una attività performativa. Molti studiosi sottolineano il fatto che la nostra società sembra aver accentuato i comportamenti di rappresentazione e presentazione riflessiva del sé: ci percepiamo come performer perennemente sottoposti al giudizio altrui, immaginiamo la presenza di altri che costituiscono il pubblico delle nostre esibizioni e con cui condividiamo pensieri, gusti, attitudini.
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